Il burkini e il dress code neocoloniale

Da ormai oltre un quindicennio, la questione dei diversi veli indossati da alcune donne islamiche si impone ciclicamente nel dibattito pubblico e politico. Dopo il patetico tentativo di
pinkwashing con cui si giustificò l’attacco all’Afghanistan governata dai talebani («Dobbiamo liberare le donne dal
burqa»), abbiamo avuto la discussione in Francia sul divieto di indossare il
burqa e il
niqab. Dopo l’orribile Daniela Santanché – quella che si fa chiamare col cognome dell’ex marito dopo oltre vent’anni dal divorzio e blatera sulla libertà delle altre donne – che se ne andava in giro a strappare i veli alle donne islamiche, abbiamo visto le Femen invitare in modo neocoloniale le musulmane a spogliarsi girando in topless per i quartieri islamici di Parigi . Ecco che adesso – in periodo di vacanze – la questione è diventata quella del cosiddetto
burkini, termine nato da una contrazione impropria tra la parola
burqa (abito che copre integralmente
tutto il corpo – viso incluso – usato da una
minoranza di donne islamiche) e la parola
bikini, indumento che evidentemente – soprattutto se succinto – è ritenuto dover caratterizzare le donne occidentali. Il dibattito è stato scatenato dalla decisione di alcune città francesi di vietare l’uso del
burkini in spiaggia, convalidata giuridicamente dal tribunale amministrativo e politicamente dal ministro dell’Interno francese Manuel Valls , secondo il quale addirittura il
burkini non sarebbe compatibile coi valori della repubblica francese in quanto espressione di un’ideologia basata sull’asservimento della donna.
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