Il
Pd non esiste più.
È svanito in una calda giornata della primavera romana, in un
vecchio hotel, già teatro di svolte politiche epocali. Ora ci sono
due partiti in uno, e nessuno di questi due partiti controlla più la
sua base. Questa volta non basta l'unanimismo di facciata a coprire
un disastro ampiamente annunciato. L'assemblea che doveva segnare
l'inizio di una fase nuova per il Pd, ha invece scelto di lasciare
un'intera comunità in un pantano senza senso.
Tutti,
alla vigilia della riunione, temevano una "conta dolorosa, una
spaccatura". Per
questo, dopo ore di vertici e trattative, all'inizio dell'assemblea,
il presidente Matteo Orfini comunica la soluzione che stoppa i due
ordini del giorno contrapposti (uno dei renziani, l'altro dei
sostenitori di Maurizio Martina) che stavano per essere depositate.
Una soluzione che di fatto, in cambio della comunicazione di
"dimissioni irrevocabili" di Matteo Renzi, accetta di non
eleggere un nuovo segretario (che doveva essere Martina, appunto) e
di rinviare ad un'altra assemblea, dopo i ballottaggi alle
amministrative di luglio, l'apertura della fase congressuale.
Apriti
cielo. Mentre
Orfini parla, scattano fischi e "buuu" dalla platea, lui
reagisce male.
Si vota. Per la prima volta nella storia del Pd, una soluzione
comunicata come "presa all'uninimità" richiede il
conteggio delle deleghe alzate e quelle abbassate. Alla fine sono 397
voti a favore e 221 contrari. Tra questi ultimi ci sono delegati
renziani, franceschiniani, martiniani, di tutte le aree del partito.
Soprattutto orlandiani e cuperliani che, si scoprirà dopo, non erano
affatto d'accordo con la sintesi raggiunta in mattinata. «Noi
volevamo eleggere oggi un segretario», spiega Orlando. Ma
il malcontento è trasversale: «Si è deciso di non decidere», dice
la renziana Lia Quartapelle. «Non ci capisce più nessuno», sbotta
Roberto Giachetti. «Ma che accordo è?», si chiede Pierfrancesco
Majorino, membro milanese della minoranza dem.
È
il caos. Maurizio Martina interviene in un clima da battaglia. E tira
bordate al Giglio Magico. «Abbiamo sbagliato tutto», e ancora «mai
con Forza Italia», «le pluricandidature hanno penalizzato le donne
e non vanno ripetute» (guardando Maria Elena Boschi), e,
soprattutto, «ora tocca a me», scatenando in sala il coro
«Segretario, segretario». Quest'ultima frase manda, di nuovo, i
renziani su tutte le furie. «Ma come? E' una conclusione di
intervento - dice il capogruppo dem al Senato, il renzianissimo
Andrea Marcucci - che non rispetta le diverse sensibilità
all'interno del partito». La discussione scivola via in un clima
surreale, in un'assise plasticamente spaccata a metà. Da una parte
la rumorosa pattuglia di Orlando e Cuperlo (che litiga con Giachetti,
colpevole di averla chiamata "claque"), dall'altra i
renziani, che alla spicciolata lasciano la sala per non dover votare
la relazione di Martina. Il primo a sparire è proprio Renzi, che si
dilegua nella periferia romana. In mezzo, disorientati, i pontieri
non sanno più a cosa aggrapparsi. Gentiloni segue l'esempio di Renzi
e lascia l'assemblea. Franceschini non sa più con chi trattare. Alla
fine la relazione di Martina viene approvata, ma è il voto meno
convinto e sincero di sempre. «Se avessimo voluto forzare avremmo
avuto i numeri - spiega il renziano Rosato -. Stanno cambiando gli
equilibri nel partito, si è chiusa una fase», replica colonnello di
Orlando, Andrea Martella.
Dopo
questa lunga giornata, ognuno proverà a dire di aver vinto, ma la
realtà è che oggi hanno perso tutti.
È
vero, Renzi ha ottenuto il rinvio del voto sul segretario, Martina ha
ottenuto una sostanziale (molto precaria) riconferma, la minoranza ha
ottenuto qualche applauso in più del solito. Ma la realtà dice che
questo gruppo dirigente non controlla più neppure i suoi delegati in
assemblea. E solo un congresso può chiarire, una volta per tutte,
una situazione ormai insostenibile.
Le
distanze tra le due aree, a livello politico, restano però siderali.
«Quanto
successo oggi - è la voce più diffusa in sala - ci dice che la
scissione non è mai stata così vicina».
In queste condizioni il congresso non può fare altro che stabilire
quali siano i rapporti di forza tra i due partiti che verranno. Il
primo che si ispira all'europeismo di Macron, che guarda alla sua
destra, a quelli che una volta si definivano moderati, in chiave
anti-populista, l'altro che prende a modello quanto Corbyn sta
facendo con il Labour in Gran Bretagna e che guarda alla sua
sinistra, all'associazionismo e ai sindacati. Due mondi
inconciliabili, che infatti non convivono in nessun Paese. E
che, visto che una sintesi sembra ormai irraggiungibile, stanno per
separarsi anche in Italia.
Max
Max
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