Ripartire
dall’orgoglio d’esser comunista
Qualsiasi
compagno, che non sia ottenebrato da logiche di apparato e da
partigianerie di appartenenze fuori luogo e incorreggibilmente
autoreferenziali, non può che condividerne i contenuti ed esserne
ancor più stimolato ad una franca e costruttiva riflessione critica
e autocritica.
Alle
riflessioni del compagno mi sentirei soltanto di aggiungere qualche
spunto volto a individuare limiti ed errori che hanno determinato
quella drammatica deriva e gli effetti di cui soffriamo le
conseguenze e che egli efficacemente rappresenta.
In
breve, credo che esistano due ordini di cause principali, tra loro
strettamente connesse, che hanno determinato tutte le altre: la prima
– propedeutica e di lunghissimo periodo – è il crescente (e,
inizialmente, non percepito) distacco dalle categorie e dal metodo
del socialismo scientifico; la seconda – conseguenza diretta della
prima – è l’affievolirsi prima e la scomparsa poi di ogni
capacità propositiva di classe.
La
difficoltà crescente a leggere le trasformazioni epocali che si
preparavano e, poi, si realizzavano nella realtà strutturale e nella
società utilizzando con rigore e coerenza lo strumento teorico del
marxismo – che, invece era ingessato come “dottrina”
nell’ortodossia – ha determinato nel corso di decenni un lento ma
inesorabile scivolamento verso il pragmatismo e l’opportunismo in
ogni ambito – culturale, politico, organizzativo – con
l’abbandono progressivo dei principi e dei valori, dei metodi di
indagine e di lavoro, delle concezioni, dei ruoli, dei rapporti,
degli strumenti e dei metodi organizzativi.
Con
l’attenuarsi del rigore e della coerenza teorica si è
parallelamente affievolita e, alla fine, spenta ogni autonomia
culturale e politica, ogni capacità e possibilità di interpretare
bisogni reali e aspirazioni delle classi subalterne, di proposizione
dei percorsi, degli obbiettivi e dei metodi di lotta.
La
fine sostanziale della rappresentanza degli interessi – storici e
contingenti – di queste classi ha portato – insieme ad una
torsione involutiva verso una concezione e una pratica tutta e
soltanto istituzionale della politica – ad un progressivo e
inarrestabile distacco tra le residuali e pretese “avanguardie”
organizzate e le masse, tra partiti ed elettori. Al punto,
paradossalmente, da essere espunti proprio da quelle istituzioni che
avevano finito per rappresentare l’unico orizzonte concepito e
possibile della propria esistenza politica.
E
mentre milioni di lavoratori e di disoccupati, di giovani e di
anziani, di donne e di pensionati venivano lasciati nell’abbandono
e nella sfiducia, i gruppi dirigenti continuavano – nella ormai
cronica e irreversibile estraneità alla teoria – a perseguire
pervicacemente le proprie incredibili alchimie politiciste e
organizzativistiche – attraverso separazioni (molte) e assemblaggi
(pochi) –, sempre autoreferenziali e minimaliste, sempre
inesorabilmente foriere di fallimenti e di sconfitte.
La
Federazione della Sinistra non poteva sfuggire a questa logica
perversa e autolesionista. E – senza voler entrare nel merito –
all’amara constatazione che fa Gianni Fresu, occorre aggiungere che
il suo fallimento era inevitabile dal momento che ad essa è sempre
mancato – fin dal momento della sua costituzione e poi nel corso
della sua vita apparente – il programma, l’unico elemento che
avrebbe obbligato ad un confronto sui contenuti e quindi a recuperare
almeno un brandello di identità, di autonomia, di proposizione
comuni e dunque di una plausibile ragion d’essere che avrebbe
potuto portare ad un minimo di recupero del rapporto con le masse, ma
anche di coesione, di omogeneità, di speranza di crescita unitaria.
Anche
la conclusione – dolorosa, ma spietata – e il giudizio
inappellabile sui partiti e sui gruppi dirigenti a cui Gianni Fresu
giunge in base ad una sofferta esperienza e ad una travagliata
riflessione, sono pienamente condivisibili, e non da oggi. Se il
prezzo che si sceglie di pagare sono la rinuncia a qualsiasi residuo
di identità e di autonomia e la subordinazione pur di rientrare in
parlamento per poter pagare lo stipendio a dirigenti e funzionari di
partito e per “far politica” (?!?), allora un approdo tanto
miserabile davvero richiede l’“eutanasia” che il compagno
auspica: delle “abitudini”, ma anche dei gruppi dirigenti e
degli stessi “partiti”, di chi, cioè, refrattario ad ogni
autocritica, con arroganza, pretende di imporre i percorsi e i metodi
che hanno portato alle innumerevoli sconfitte e al decadimento.
Una
“eutanasia” come necessaria premessa alla proposta di una “nuova
costituente dei comunisti e degli anticapitalisti”.
Sappiamo
tutti bene come non sia la prima volta che una proposta simile viene
avanzata. Essa è stata e resta negli auspici di tantissimi comunisti
che vi vedono l’unico orizzonte possibile. Molti compagni – anche
con quel minimo di organizzazione che è possibile e necessaria –
hanno provato e ancora provano tenacemente a percorrere questa
strada. È una prospettiva ancora nebulosa ma concreta, tant’è che
indirettamente e, perfino, inconsapevolmente, ad essa si ispirano
iniziative, movimenti e tentativi ancora immaturi di aggregazione.
Il
compito, allora, è di capire perché questi tentativi si sono spenti
o sono stati fino ad oggi frustrati, che possibilità e a quali
condizioni potrebbe avere spazio e futuro una prospettiva di tal
genere, diversamente strutturata, senza dover attendere la totale
cancellazione dell’esistente.
Credo
che sia possibile e inevitabile provare a ripercorrere questa strada,
e che sia necessario puntare su due elementi: quello identitario e
quello propositivo.
Quando
parlo di “identità comunista” intendo diverse cose, non astratte
né nostalgiche e né tra loro separabili.
In
primo luogo identità comunista come riappropriazione piena, rigorosa
e coerente della concezione del mondo e della teoria del materialismo
dialettico e storico. Dunque, non come stereotipo dottrinario
ingessato, ma come strumento vivo per la interpretazione e il
cambiamento radicale della realtà in continua e tumultuosa
trasformazione.
In
secondo luogo, quindi, identità comunista come consapevole
assunzione di responsabilità perché la prospettiva del comunismo è
l’unica concreta e ineludibile possibilità di fuoriuscita
effettiva dalla crisi e di superamento del capitalismo. Non è
possibile assistere inerti al paradosso che tutte le condizioni
oggettive necessarie per il salto rivoluzionario diventino ogni
giorno più concrete come mai nella storia del capitalismo – al
punto che perfino i teorici più intelligenti della borghesia
riconoscono la giustezza dell’analisi marxiana – e il soggetto
rivoluzionario resti timoroso e inerte, trascinandosi penosamente
alla coda degli avvenimenti e nella scia di percorsi e proposte
inadeguate o bastarde.
E,
quindi, identità comunista come rivendicazione orgogliosa di sé,
della propria concezione del mondo e della propria prospettiva
storica, ma anche – finalmente, di nuovo – della propria storia
che è stata lasciata – via via, nel corso di circa 70 anni, dai
fatidici anni ’50-‘60 – appannare, falsificare, demonizzare,
non soltanto dall’avversario ma anche dagli elementi più
opportunisti emersi dal nostro stesso seno.
Infine,
identità comunista come capacità di proposizione politica concreta,
scaturita dal corretto e attuale utilizzo delle nostre categorie
interpretative nella realtà contemporanea.
E
siamo, allora, alla proposta che dovrà essere concreta,
comprensibile, realistica e praticabile per poter “impossessarsi
delle masse”, unico, vero soggetto del cambiamento sotto la giusta
direzione politica.
Proposta
che vuol dire, nella nostra tradizione – non dobbiamo inventare
niente, ma solo raccordare cultura ed esperienza storica alle
condizioni del presente –, “programma minimo”, senza cui non
sono possibili né il necessario recupero di fiducia strutturata con
le masse, né un primo livello di unità e, dunque, nessuna
“costituente”, ma solo un ennesimo assemblaggio di soggetti che
resteranno diversi.
Le
condizioni oggettive sono – paradossalmente, nonostante i fatti
sembrino dimostrare il contrario – favorevoli: non soltanto la
crisi è irreversibile e si sviluppa secondo le linee e verso gli
sbocchi ampiamente leggibili nella elaborazione marxista, ma anche
tutto ciò che si agita nella società – per quanto parziale,
spontaneo, immaturo o, perfino, strumentalizzato – è
obbiettivamente favorevole ad un intervento qualificato dei comunisti
e, addirittura, lo esige. Tutti fenomeni che – impropriamente –
vengono sbrigativamente bollati di “antipolitica” o di
“allontanamento dalla politica”, l’astensionismo,
l’autorganizzazione, sono i sintomi di un vuoto profondo che
soltanto i comunisti con la loro proposta possono colmare: fenomeni
come in passato la Lega ed oggi i “grillini” sono uno schiaffo
all’incapacità dei comunisti di saper intercettare, organizzare e
finalizzare il bisogno di rinnovamento e di cambiamento che dilagano
nella società.
Ma
concretezza, comprensibilità e praticabilità della proposta
vogliono dire anche tener conto del contesto non favorevole all’idea
di comunismo per lo stillicidio di demonizzazioni che ne è stato
fatto e per il discredito e la sfiducia di cui noi stessi portiamo la
responsabilità, e che nessuna rivendicazione orgogliosa potrà far
sparire d’incanto. E, del resto, siamo ancora troppo pochi, troppo
fragili e immaturi, troppo diffidenti e litigiosi – capacità e
unità le dovremo conquistare, pezzo per pezzo, sul campo – per
assumerci, dopo decenni di deriva negativa, da soli l’onere di
raccogliere e dirigere le forze popolari contro il capitalismo.
Sarebbe un grave errore di volontarismo e di velleitarismo.
Realistico, in questa fase, è invece assumersi il ruolo e l’onere
di essere l’elemento di proposizione, di coagulo e, possibilmente,
di direzione di un fronte anticapitalistico che determini la massa
critica capace di contrastare efficacemente le politiche
capitalistiche, in cui far crescere le nostre capacità politiche,
imparare a realizzare l’egemonia, mettere a punto programmi e
metodi di lavoro, da cui attingere proseliti alla causa del
comunismo.
Naturalmente
occorrerà fare molta attenzione a non ripetere l’eerore di
confondere i due livelli e a non diluire il partito nel fronte, ma a
costruire l’unità dei comunisti e il loro partito operando ed
esercitando l’egemonia nel fronte.
Chi
scrive questa nota rivendica orgogliosamente 52 anni di militanza
attiva, ma deve lamentare 70 anni di anzianità anagrafica. Non è
sui vecchi e sui meno vecchi che la ricostruzione può essere basata:
la loro esperienza deve essere capitalizzata come retroterra e
sponda, ma il nuovo percorso deve essere affidato a menti e a gambe
giovani, capaci di leggere questo tempo – il loro tempo – e di
avanzare con orgogliosa determinazione. Già molti anni fa – al
momento dello scioglimento del PCI e della “rifondazione” –
avremmo dovuto coraggiosamente affidare il gravoso compito di
ricostruire una identità teorica politica e organizzativa comuniste
a compagni giovani e giovanissimi. Coerentemente con le altre scelte
di merito, si preferì il continuismo anche su questo terreno. Quando
si fece ricorso ai giovani – ad alcuni giovani – vennero
selezionati i più rampanti, quelli più adatti ad affossare ciò che
restava del comunismo. L’esperienza è una risorsa preziosa, ma
inevitabilmente vuol dire anche cattive abitudini, convinzioni e
metodi non necessariamente corretti. La “rifondazione” – e quel
che ne è seguito – è stata gestita in assoluta continuità con il
vecchio PCI e con i rottami della “nuova sinistra”, nelle
concezioni, nei contenuti, nei metodi e dal vecchio personale
politico corresponsabile – se non altro, passivo – del
decadimento. L’azzeramento degli organismi dirigenti va esattamente
nella direzione di una netta discontinuità. Ed è qui che si
misurerà politicamente ed eticamente la disponibilità di ciascuno a
mettersi in discussione e a porsi non alla guida, ma al servizio
dell’idea e della pratica del comunismo........be se ci fosse vivo ancora mio padre probabilmente lo avrei fatto felice
Max