lunedì 18 giugno 2012

IL CORAGGIO DELL'IDEOLOGIA.....

Ripartire dall’orgoglio d’esser comunista

                 
Qualsiasi compagno, che non sia ottenebrato da logiche di apparato e da partigianerie di appartenenze fuori luogo e incorreggibilmente autoreferenziali, non può che condividerne i contenuti ed esserne ancor più stimolato ad una franca e costruttiva riflessione critica e autocritica.
Alle riflessioni del compagno mi sentirei soltanto di aggiungere qualche spunto volto a individuare limiti ed errori che hanno determinato quella drammatica deriva e gli effetti di cui soffriamo le conseguenze e che egli efficacemente rappresenta.
In breve, credo che esistano due ordini di cause principali, tra loro strettamente connesse, che hanno determinato tutte le altre: la prima – propedeutica e di lunghissimo periodo – è il crescente (e, inizialmente, non percepito) distacco dalle categorie e dal metodo del socialismo scientifico; la seconda – conseguenza diretta della prima – è l’affievolirsi prima e la scomparsa poi di ogni capacità propositiva di classe.
La difficoltà crescente a leggere le trasformazioni epocali che si preparavano e, poi, si realizzavano nella realtà strutturale e nella società utilizzando con rigore e coerenza lo strumento teorico del marxismo – che, invece era ingessato come “dottrina” nell’ortodossia – ha determinato nel corso di decenni un lento ma inesorabile scivolamento verso il pragmatismo e l’opportunismo in ogni ambito – culturale, politico, organizzativo – con l’abbandono progressivo dei principi e dei valori, dei metodi di indagine e di lavoro, delle concezioni, dei ruoli, dei rapporti, degli strumenti e dei metodi organizzativi.
Con l’attenuarsi del rigore e della coerenza teorica si è parallelamente affievolita e, alla fine, spenta ogni autonomia culturale e politica, ogni capacità e possibilità di interpretare bisogni reali e aspirazioni delle classi subalterne, di proposizione dei percorsi, degli obbiettivi e dei metodi di lotta.
La fine sostanziale della rappresentanza degli interessi – storici e contingenti – di queste classi ha portato – insieme ad una torsione involutiva verso una concezione e una pratica tutta e soltanto istituzionale della politica – ad un progressivo e inarrestabile distacco tra le residuali e pretese “avanguardie” organizzate e le masse, tra partiti ed elettori. Al punto, paradossalmente, da essere espunti proprio da quelle istituzioni che avevano finito per rappresentare l’unico orizzonte concepito e possibile della propria esistenza politica.
E mentre milioni di lavoratori e di disoccupati, di giovani e di anziani, di donne e di pensionati venivano lasciati nell’abbandono e nella sfiducia, i gruppi dirigenti continuavano – nella ormai cronica e irreversibile estraneità alla teoria – a perseguire pervicacemente le proprie incredibili alchimie politiciste e organizzativistiche – attraverso separazioni (molte) e assemblaggi (pochi) –, sempre autoreferenziali e minimaliste, sempre inesorabilmente foriere di fallimenti e di sconfitte.
La Federazione della Sinistra non poteva sfuggire a questa logica perversa e autolesionista. E – senza voler entrare nel merito – all’amara constatazione che fa Gianni Fresu, occorre aggiungere che il suo fallimento era inevitabile dal momento che ad essa è sempre mancato – fin dal momento della sua costituzione e poi nel corso della sua vita apparente – il programma, l’unico elemento che avrebbe obbligato ad un confronto sui contenuti e quindi a recuperare almeno un brandello di identità, di autonomia, di proposizione comuni e dunque di una plausibile ragion d’essere che avrebbe potuto portare ad un minimo di recupero del rapporto con le masse, ma anche di coesione, di omogeneità, di speranza di crescita unitaria.
Anche la conclusione – dolorosa, ma spietata – e il giudizio inappellabile sui partiti e sui gruppi dirigenti a cui Gianni Fresu giunge in base ad una sofferta esperienza e ad una travagliata riflessione, sono pienamente condivisibili, e non da oggi. Se il prezzo che si sceglie di pagare sono la rinuncia a qualsiasi residuo di identità e di autonomia e la subordinazione pur di rientrare in parlamento per poter pagare lo stipendio a dirigenti e funzionari di partito e per “far politica” (?!?), allora un approdo tanto miserabile davvero richiede l’“eutanasia” che il compagno auspica: delle “abitudini”, ma anche dei gruppi dirigenti e degli stessi “partiti”, di chi, cioè, refrattario ad ogni autocritica, con arroganza, pretende di imporre i percorsi e i metodi che hanno portato alle innumerevoli sconfitte e al decadimento.
Una “eutanasia” come necessaria premessa alla proposta di una “nuova costituente dei comunisti e degli anticapitalisti”.
Sappiamo tutti bene come non sia la prima volta che una proposta simile viene avanzata. Essa è stata e resta negli auspici di tantissimi comunisti che vi vedono l’unico orizzonte possibile. Molti compagni – anche con quel minimo di organizzazione che è possibile e necessaria – hanno provato e ancora provano tenacemente a percorrere questa strada. È una prospettiva ancora nebulosa ma concreta, tant’è che indirettamente e, perfino, inconsapevolmente, ad essa si ispirano iniziative, movimenti e tentativi ancora immaturi di aggregazione.
Il compito, allora, è di capire perché questi tentativi si sono spenti o sono stati fino ad oggi frustrati, che possibilità e a quali condizioni potrebbe avere spazio e futuro una prospettiva di tal genere, diversamente strutturata, senza dover attendere la totale cancellazione dell’esistente.
Credo che sia possibile e inevitabile provare a ripercorrere questa strada, e che sia necessario puntare su due elementi: quello identitario e quello propositivo.
Quando parlo di “identità comunista” intendo diverse cose, non astratte né nostalgiche e né tra loro separabili.
In primo luogo identità comunista come riappropriazione piena, rigorosa e coerente della concezione del mondo e della teoria del materialismo dialettico e storico. Dunque, non come stereotipo dottrinario ingessato, ma come strumento vivo per la interpretazione e il cambiamento radicale della realtà in continua e tumultuosa trasformazione.
In secondo luogo, quindi, identità comunista come consapevole assunzione di responsabilità perché la prospettiva del comunismo è l’unica concreta e ineludibile possibilità di fuoriuscita effettiva dalla crisi e di superamento del capitalismo. Non è possibile assistere inerti al paradosso che tutte le condizioni oggettive necessarie per il salto rivoluzionario diventino ogni giorno più concrete come mai nella storia del capitalismo – al punto che perfino i teorici più intelligenti della borghesia riconoscono la giustezza dell’analisi marxiana – e il soggetto rivoluzionario resti timoroso e inerte, trascinandosi penosamente alla coda degli avvenimenti e nella scia di percorsi e proposte inadeguate o bastarde.
E, quindi, identità comunista come rivendicazione orgogliosa di sé, della propria concezione del mondo e della propria prospettiva storica, ma anche – finalmente, di nuovo – della propria storia che è stata lasciata – via via, nel corso di circa 70 anni, dai fatidici anni ’50-‘60 – appannare, falsificare, demonizzare, non soltanto dall’avversario ma anche dagli elementi più opportunisti emersi dal nostro stesso seno.
Infine, identità comunista come capacità di proposizione politica concreta, scaturita dal corretto e attuale utilizzo delle nostre categorie interpretative nella realtà contemporanea.
E siamo, allora, alla proposta che dovrà essere concreta, comprensibile, realistica e praticabile per poter “impossessarsi delle masse”, unico, vero soggetto del cambiamento sotto la giusta direzione politica.
Proposta che vuol dire, nella nostra tradizione – non dobbiamo inventare niente, ma solo raccordare cultura ed esperienza storica alle condizioni del presente –, “programma minimo”, senza cui non sono possibili né il necessario recupero di fiducia strutturata con le masse, né un primo livello di unità e, dunque, nessuna “costituente”, ma solo un ennesimo assemblaggio di soggetti che resteranno diversi.
Le condizioni oggettive sono – paradossalmente, nonostante i fatti sembrino dimostrare il contrario – favorevoli: non soltanto la crisi è irreversibile e si sviluppa secondo le linee e verso gli sbocchi ampiamente leggibili nella elaborazione marxista, ma anche tutto ciò che si agita nella società – per quanto parziale, spontaneo, immaturo o, perfino, strumentalizzato – è obbiettivamente favorevole ad un intervento qualificato dei comunisti e, addirittura, lo esige. Tutti fenomeni che – impropriamente – vengono sbrigativamente bollati di “antipolitica” o di “allontanamento dalla politica”, l’astensionismo, l’autorganizzazione, sono i sintomi di un vuoto profondo che soltanto i comunisti con la loro proposta possono colmare: fenomeni come in passato la Lega ed oggi i “grillini” sono uno schiaffo all’incapacità dei comunisti di saper intercettare, organizzare e finalizzare il bisogno di rinnovamento e di cambiamento che dilagano nella società.
Ma concretezza, comprensibilità e praticabilità della proposta vogliono dire anche tener conto del contesto non favorevole all’idea di comunismo per lo stillicidio di demonizzazioni che ne è stato fatto e per il discredito e la sfiducia di cui noi stessi portiamo la responsabilità, e che nessuna rivendicazione orgogliosa potrà far sparire d’incanto. E, del resto, siamo ancora troppo pochi, troppo fragili e immaturi, troppo diffidenti e litigiosi – capacità e unità le dovremo conquistare, pezzo per pezzo, sul campo – per assumerci, dopo decenni di deriva negativa, da soli l’onere di raccogliere e dirigere le forze popolari contro il capitalismo. Sarebbe un grave errore di volontarismo e di velleitarismo. Realistico, in questa fase, è invece assumersi il ruolo e l’onere di essere l’elemento di proposizione, di coagulo e, possibilmente, di direzione di un fronte anticapitalistico che determini la massa critica capace di contrastare efficacemente le politiche capitalistiche, in cui far crescere le nostre capacità politiche, imparare a realizzare l’egemonia, mettere a punto programmi e metodi di lavoro, da cui attingere proseliti alla causa del comunismo.
Naturalmente occorrerà fare molta attenzione a non ripetere l’eerore di confondere i due livelli e a non diluire il partito nel fronte, ma a costruire l’unità dei comunisti e il loro partito operando ed esercitando l’egemonia nel fronte.
Chi scrive questa nota rivendica orgogliosamente 52 anni di militanza attiva, ma deve lamentare 70 anni di anzianità anagrafica. Non è sui vecchi e sui meno vecchi che la ricostruzione può essere basata: la loro esperienza deve essere capitalizzata come retroterra e sponda, ma il nuovo percorso deve essere affidato a menti e a gambe giovani, capaci di leggere questo tempo – il loro tempo – e di avanzare con orgogliosa determinazione. Già molti anni fa – al momento dello scioglimento del PCI e della “rifondazione” – avremmo dovuto coraggiosamente affidare il gravoso compito di ricostruire una identità teorica politica e organizzativa comuniste a compagni giovani e giovanissimi. Coerentemente con le altre scelte di merito, si preferì il continuismo anche su questo terreno. Quando si fece ricorso ai giovani – ad alcuni giovani – vennero selezionati i più rampanti, quelli più adatti ad affossare ciò che restava del comunismo. L’esperienza è una risorsa preziosa, ma inevitabilmente vuol dire anche cattive abitudini, convinzioni e metodi non necessariamente corretti. La “rifondazione” – e quel che ne è seguito – è stata gestita in assoluta continuità con il vecchio PCI e con i rottami della “nuova sinistra”, nelle concezioni, nei contenuti, nei metodi e dal vecchio personale politico corresponsabile – se non altro, passivo – del decadimento. L’azzeramento degli organismi dirigenti va esattamente nella direzione di una netta discontinuità. Ed è qui che si misurerà politicamente ed eticamente la disponibilità di ciascuno a mettersi in discussione e a porsi non alla guida, ma al servizio dell’idea e della pratica del comunismo........be se ci fosse vivo ancora mio padre probabilmente lo avrei fatto felice

                                                                                                                           Max


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