Lettera agli ex iscritti al Pci folgorati dal renzismo: da Berlinguer a Marchionne, si può? Dal sogno di un’Italia giusta alla restaurazione antidemocratica

Caro ex iscritto al Pci, leggimi pure (anzi,
me lo auguro) se sei tra coloro che oggi vedono nel Pd una pur lontana
parentela con quel grande partito. Non siete tantissimi ma ci siete,
alcuni vivacchiano sconsolati, altri propugnano il nuovo Ottocento che
avanza. Mi rivolgo a te con lo spirito fraterno che avevamo un tempo e
che ci aiutava a capire meglio le cose (la realtà effettuale, delle cose
come cioè effettivamente sono) non per accettarle ma per cambiarle.
Concretezza e realismo con l’utopia. Mi spiace molto vedere come questi
25 anni senza il Pci siano stati sufficienti per rottamarne la sua
tradizione, la storia, la prassi, il modo di lavorare. Cinque lustri
riempiti dal nulla e dai progressivi smottamenti dei due partiti
maldestri eredi: quel Pds ancora smarrito e quei Ds già a rischio di
scalate ostili (in Sardegna avvenne un’Opa maligna da manuale, come un
Alien dentro il corpo).
Poi è arrivato il Pd, quel pacco di buoni
sentimenti dove il conflitto capitale lavoro era sparito per far posto a
Jovanotti e ad altre leggerezze da partito liquido. Per diventare
successivamente ciò che è ora: un comitato elettorale al servizio di un
capo che propugna politiche legate alla finanza e alla grande industria.
Sarebbe stato indigeribile per te, un tempo. Oggi non più. Sei stanco,
avevi voglia di vincere cambiando casacca? Oggi mi chiedo che cosa ti
sia accaduto, quale trasformazione tu abbia subito, che devastazione
culturale abbia dovuto vivere per essere diventato ciò che sei ora. Come
se sovrapponessi le tue personali debolezze nella sconfitta di una
storia e di un avvenire.
Non offenderti, dunque, ma ascoltandoti o
leggendo quanto scrivi sui social – che pena scorrere le due righette di
una donna banalissima, un tempo iscritta al Pci, che annunciando la sua
conversione al Sì dice che “anche la Costituzione ha frenato il Paese” –
penso che una trasformazione così radicale debba essere studiata. A
questo punto sono costretto ad ammettere che il grande partito che fu e i
suoi tardi epigoni avevano già smarrito una certa capacità di
formazione e di selezione. La realtà di oggi è che sei finito dall’altra
parte. Lo accetto, va bene. Ma non ti accontenti di indossare il
cilicio e far finta di aver vissuto un dramma interiore. Come se il
passato fosse l’Invasione d’Ungheria e tu sovrastato dal dramma
dell’appartenenza. Macchè. Sei come quei preti spretati che si
trasformano in feroci anticlericali e assomigli a quei cinici che dopo
la militanza nei gruppetti estremistici, da un giorno all’altro
abbandonarono gli slogan rivoluzionari per passare armi e bagagli alla
corte di Bettino, poi a quella di Silvio per salire infine, pur
attempati ma esperti, al soglio di Matteo. Ricordi quanto li abbiamo
criticati, contestati, giurando che mai noi saremmo diventato così. Come
così? Come voltagabbana. Ora predichi le stesse cose che diceva la
destra o la Confindustria e allora, comincio a pormi più di un problema
sulla tua onestà intellettuale.
Ricordo bene le parole che ci dicevamo, i
libri che studiavamo, gli articoli di giornale che leggevamo per capire.
In quelle sezioni di partito fumose e cariche di umori e passioni. Dove
abbiamo incontrato operai e braccianti, insegnanti e impiegati,
disoccupati e avvocati. Erano concreti e decisi, coraggiosi e sognatori.
Che cosa ci raccontavamo, dunque, che oggi non ti piace più? Provo a
dirlo. Ad esempio che il sindacato in quanto organizzazione collettiva
era insostituibile e i diritti dei lavoratori la stella polare? Che la
volontà di battersi per un mondo migliore, non fatto di sogni ma
concretissimo, era l’imperativo politico? Aspetta, non ho finito…
Ricordi anche il mito dell’onestà? Lo sbandieravamo e la notte
attaccavamo quei manifesti orgogliosi “Il Pci ha le mani pulite. Chi può dire altrettanto?”. Oggi invece difendi Verdini, Alfano e il tuo partito ha eserciti di inquisiti.
E non avrai dimenticato della lotta strenua contro l’opportunismo (dal dizionario: sostantivo maschile che descrive “la
condotta di individui o gruppi che, avendo di mira soprattutto il
proprio tornaconto, ritengono conveniente rinunciare ai propri principi e
accettare compromessi più o meno onorevoli”). Mai opportunisti
dicevamo, sempre noi stessi pur capaci di fare intese e stringere
alleanze. Mica eravamo idioti. Ci consideravamo anche un’isola di
persone per bene in un mare di malaffare. Forse esageravamo perché
onesti, per fortuna, ce n’erano ovunque. Ma davanti agli scandali che
scuotevamo la Repubblica eravamo l’unica certezza. Vivevamo la religione
della diversità e, a dire il vero, diversi lo eravamo. Magari era
un’illusione. Certamente puliti, onesti, combattivi, patrioti, rigorosi.
Legati al dovere. Ricordo che un paio dei nostri sorpresi con le mani
nella marmellata furono allontanati senza tanto clamore. Guardavamo agli
altri con rispetto ma consci della nostra diversità. Ridevamo delle
degenerazioni correntizie di Dc e Psi, oh quanto ridevamo. Ricordi,
amico mio, che discutevamo a lungo per capire le differenze tra morotei e
dorotei, nuove cronache e corrente del golfo. E dei socialisti
cercavamo di capire la crescita craxiana, le debolezze dei lombardiani,
l’arrivismo modernista dei martelliani? Ci avevano insegnato il metodo:
mai schematizzare, mai generalizzare, mai confondere i conservatori con i
reazionari etc. E a proposito di dovere non avrai scordato quanto
abbiamo fatto contro i violenti, l’eversione, il terrorismo.
Su tutto si poteva scherzare ma non su due o tre cose.
La prima, la Resistenza. Era uno dei valori
fondamentali, ad essa guardavamo con devozione e rispetto, immaginando
che cosa avremmo fatto noi in quei frangenti. Sentendoci “nani issati
sulle spalle dei giganti”. Potevamo noi paragonarci a Pajetta o a
Eugenio Curiel? La nostra gratitudine era immensa e allo stesso tempo
non abbiamo mai voluto una Resistenza prigioniera del paradigma del
fallimento perché non aveva conquistato il socialismo. Ricordi che lo
spiegavamo, anche con qualche ceffone pedagogico, a quei saccenti
estremisti che ci dicevano che la Resistenza non aveva avuto lo sbocco
rivoluzionario per colpa di Togliatti? Guardavamo l’elenco delle
formazioni partigiane, gran parte delle quali garibaldine, i nomi dei
gappisti, le loro gesta, i caduti. Ed eravamo grati, moltissimo, del
loro coraggio e della loro scelta. Di questo ci onoravamo.
La seconda cosa che per noi rappresentava la
carta d’identità e dalla quale traevamo legittimazione come partito era
la Costituzione. L’ha firmata Terracini, uno di noi, dicevamo spavaldi e
orgogliosi! E tra i costituenti ma in ogni dove a costruirla quella
Costituzione c’erano stati Togliatti, Longo, Pajetta, Amendola,
Negarville, Scoccimarro, Gullo, Renzo Laconi e Velio Spano e Nilde
Jotti, Camilla Ravera, Teresa Noce. Quella Costituzione in nome della
quale le masse povere e sfruttate lottavano e si battevano, colpiti per
questo dalla mafia e dalla repressione, a Portella della ginestra, a
Modena, Avola, Reggio Emilia. Ricordi quei manifesti nelle nostre
sezioni con l’elenco dei segretari delle camere del lavoro uccisi dal
piombo di Scelba?

Il terzo punto
che per noi era intoccabile era la figura del segretario generale. Noi
avevamo bandito il culto della personalità, guardavamo con fastidio i
riti della nomenklatura sovietica. Tuttavia il segretario generale, era
figura abbastanza sacrale perchè riconosciuta, rispettata. Ma non si
trattava di un padre padrone. Togliatti ad esempio fu messo in minoranza
in direzione, Berlinguer non ebbe vita facile con i miglioristi sempre
alle calcagna. Però c’era rispetto, passione, amicizia. Ci piaceva
Enrico, perché era onesto, un comunista rigoroso e inflessibile. Che
parlava al cuore e alle menti. Ci piaceva quell’uomo piccolo che aveva
fatto risuonare la sua voce sarda nell’immensa sala del palazzo dei
sindacati a Mosca, parlando di democrazia come valore universale. E
quanto ci era piaciuto Berlinguer, in quella strenua lotta contro Craxi
sulla scala mobile o al fianco degli operai della Fiat. A me
personalmente era piaciuta la sua analisi sulla situazione italiana e la
proposta del compromesso storico oltre la sua fermezza granitica contro
il terrorismo.
Dicevamo: prima l’interesse generale, poi
quello di partito. Dicevamo: i sindaci nostri devono essere diversi,
diversissimi. Novelli, Valenzi, Zangheri, Petroselli e decine di altri
meno noti, erano diversi. La sinistra voleva dire asili nido, trasporti,
equità, scuola e sanità pubblici, trasparenza amministrativa. Tra un
sindaco della Dc e uno del Pci c’era una differenza antropologica. A
Roma ad esempio non potevi non vedere l’abisso tra Darida e Argan o
Petroselli. E a Napoli tra il laurismo clientelare rispetto a Maurizio
Valenzi.
Ora ti guardo amico mio. E vedo che ingoi
tutto, anche il fiele. Ora sei nel Pd, un partito che vuole trasformarsi
in Partito della Nazione. Dove Verdini e Alfano possono trovare
cittadinanza come te, perché quella formula tutto raccoglie. Gramsci
(ricordi?) aveva insegnato che i partiti sono la nomenclatura delle
classi. E noi a quel semplice concetto di rappresentanza ci siamo
ispirati. Partito con forti connotazioni, di classe ma non solo, che
guardava all’interesse nazionale. E ora? A che cosa credi? Magari in
qualche vostro circolo avete appeso un ritratto di Berlinguer, incuranti
della vostra abissale alterità.
Amico mio che tristezza vedere in tv ministri
di un governo il cui premier è pubblicamente lodato dalla Confindustria e
dagli organismi finanziari per aver stracciato lo Statuto dei
lavoratori e abolito l’articolo 18. Ricordi quante battaglie anche
insieme a Cofferati? Tu magari eri li al Circo Massimo con due o tre
milioni a dire che Berlusconi era cattivo. Ora invece stai zitto, anzi
applaudi all’ondata di licenziamenti, al terribile jobs act, allo
smantellamento della scuola e della sanità pubblica. Hai accettato che
il tuo premier, figlio di una vischiosa stragione post dc – che dei La
Pira nulla aveva ma nemmeno di Moro – frequenti solo industriali e
finanzieri. Che attacchi così duramente la Cgil, irridendola e
offendendo il sindacato. Arrivando a contestare persino l’Anpi,
l’associazione dei partigiani e degli antifascisti con toni orrendi.
E sei arrivato sin qui, fin sulla soglia di un
seggio, a guardare chi si batte per la Costituzione con un fastidio
irridente. Tu vedi ora la Carta come un orpello del passato, un
fastidio, un ostacolo. Ma a che? Alla modernizzazione, assicuri,
ripetendo come un pappagallo le baggianate del “basta un Sì” . Alla
“velocità” e a chissà a quali altre idiozie. Credi a tutto e non capisci
ciò che c’è dietro la revisione costituzionale, non ti rendi conti di
quanta prepotenza odiosa si riverserà all’Italia se dovesse passare.
Certo che vederti ora andare a braccetto con
Lotti e Boschi, Guerini e Ciaone Carbone, applaudire Renzi e ridere alle
sue barzellette, giustificare le sue bugie, non vergognarti delle sue
volgarità e della sua arroganza, allora penso che davvero tante cose
siano accadute e molte abbiano lasciato un segno. In pratica caro amico,
o ex amico a questo punto, tu ti sei arreso. Non vedi orizzonti del
cambiamento. Non accetti che qualcuno si batta per costruirlo. Per te
tutto ciò in cui abbiamo creduto è vecchio, obsoleto e merita un
sorrisino di circostanza. E guardi con ammirazione Renzi e le sue
slides, Renzi e le sue gradassate, Renzi e il suo modello di partito
conquistato con primarie che puzzavano assai. In pratica, hai tradito.
Comunque amico mio, non tutto è
ancora perduto. Ma se passa il tuo livido e cinico crepuscolo politico,
sarà certamente un’Italia peggiore. Sei tu il conservatore non io, stai
riportando indietro l’Italia di un secolo, anche se 4.0 e con le slide.
La nostra storia nessuna la cancellerà
Fraterni saluti
Max
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